Elisa Montessori, Raffaella Benetti, VANITAS, 2016, a cura di Andrea Tinterri

Quando si affronta un tòpos della storia dell’immagine, come nel caso del percorso di Elisa Montessori e Raffaella Benetti, è necessario capirne gli scarti, le possibili evoluzioni, e l’approdo contemporaneo in uno studio comparato con la tradizione. Perché ripensare e concentrare nuovamente la ricerca sul tema della vanitas? Perché oggi e con quali esiti? Un breve excursus cronologico sarà necessario soprattutto per definire una linea di separazione tra un prima e un dopo, tra la tradizione della natura morta e l’introduzione di diretti riferimenti alla vanitas, evidenti inizialmente in area olandese, di cultura calvinista, del XVII secolo. Un atteggiamento che, in poco tempo, si diffonderà in buona parte dell’Europa, risolvendosi in declinazioni spesso autonome. La matrice religiosa del genere sposta l’attenzione della natura morta sull’idea della caducità della vita terrena, sulla rappresentazione simbolica, e spesso didascalica, dei valori vacui a cui rinunciare, nella prospettiva di una conciliazione eterna, di una pacificazione salvifica. È in questa prospettiva che la composizione iconografica della tela pone la sua attenzione sulla scelta dei singoli oggetti e sul loro rapporto reciproco. I simboli del tempo e della morte, come la clessidra, la candela, le bolle di sapone, i fiori recisi ad indicare la fragilità di un’esistenza, e l’immancabile teschio a ricordare un intervallo temporale limitato a cui ci dobbiamo piegare, nell’ossequiosa speranza della salvezza eterna. Come in un disegno del 1624 di David Bailly, uno dei primi rappresentanti del genere, dove compaiono solo quattro oggetti, uno in fila all’altro: una carta arrotolata con la scritta quis evadet, una clessidra, un teschio e una pipa fumante. Una fila ordinata, una piccola rappresentazione, un semplice monito. A questo tipo di testimonianza, a questi segni emblematici e assai diretti, sono spesso affiancati i simboli di un esistenza terrena, corrotta dal potere, dal denaro, dai piaceri del gioco o dalla semplice contemplazione filosofica. In questo modo l’opera si arricchisce di una complessità semantica che si risolve in un rapporto quasi dualistico che, in alcuni casi, viene intrecciato da altri segnali, da altre prospettive: spighe di grano o foglie d’alloro come allusione ad una possibile risurrezione, ad una possibile salvezza. È piuttosto palese che il genere, soprattutto in alcuni esiti, riservi delle insidie, ossia una sorta di ambiguità di fondo, quasi un invito barocco a godere dei piaceri della vita. Evidente soprattutto in quelle opere che vedono un trionfo dei sensi, un accumulo collezionistico di oggetti preziosi, dove hirstla voluttà dell’esperienza terrena sembra appagare l’osservatore. È un gioco pericoloso, sul filo di una linea sottile: nell’opera Lo scrigno di Georg Heinz, oggetti di un attento e ricco collezionismo occupano l’intero spazio della tela, e il teschio sembra solo un altro dei tanti rari ritrovamenti. Questo aspetto, sposta l’attenzione del topos della vanitas sulla duttilità del genere stesso. Su come, nella storia dell’immagine, gli oggetti della rappresentazione siano mutati e abbiano gradualmente perso quell’intento moraleggiante e religioso insito nelle origini. Questo orientamento, ossia una distanza sempre più marcata con il sentimento del sacro, è ribadito nell’approccio contemporaneo di Elisa Montessori e Raffaella Benetti. Due atteggiamenti simili nella loro autonomia. Montessori ribadisce l’attenzione alla vanitas in un lavoro di sintesi, dove il fiore reciso rimane un emblema, una variazione di un tema. Riporta alla luce un qualcosa che ci riguarda da sempre, ma senza la necessità di giocare con l’eccesso, con la grottesca opulenza di alcune derive contemporanee sulla tematica. Si riserva di esplorare la duttilità del genere nella produzione di acquarelli su carta. In questi lavori ritroviamo alcuni oggetti di reminiscenza seicentesca con alcune varianti sul filo dell’ironia. La germinazione di un teschio con a fianco un sipario, il volto enigmatico di una scimmia, un rapanello vicino ad un volto di fanciullo, a sottolineare una continua metamorfosi. Ogni foglio, però, non contiene più di due elementi, Montessori si affranca dall’accumulo compulsivo, scegliendo di far affiorare poche indispensabili parole. Benetti, nella sua produzione fotografica, riporta in superficie quel nulla di inesauribile segreto, illuminando solo l’oggetto allegorico. La fotografia è luce e Benetti interpreta questo in un gioco degli opposti, dove l’illuminazione è intrinseca alla materia stessa, evidenziandone la trasmutazione, il cambiamento di colore: una nuova fragilità. Una luce che diventa movimento e quindi musica, riaffermando una presenza ancora vitale seppur instabile. Qualcosa che esiste, che lentamente si muove mettendo in mostra la propria naturale armonia, la propria ostinata resistenza alla morte. E quindi non stupisce che alcune opere abbiano diretti riferimenti, come vedremo anche in seguito, ad esplorazioni musicali, soprattutto mozartiane. In entrambi i casi le tracce conservate sono presenze floreali dal gambo spezzato, foglie che emergono da uno spazio monocromo. Simboli che caratterizzano buona parte della produzione Seicentesca di genere, ma che nel caso delle opere proposte in questo libro, sostengono spesso l’intero intreccio narrativo. Benetti nasconde il mondo e i suoi orpelli sotto un sipario nero, non ci è concesso sapere cosa si nasconda in profondità, probabilmente qualcosa di irrecuperabile che non ha avuto la forza di risalire, la spregiudicatezza di ingannare la morte. L’elemento vegetale diventa l’attore primario, possedendo un’intrinseca capacità espressiva. E anche quando Elisa Montessori interpella altre presenze (teschi, volti di giovani uomini, volti di animali esotici), sembra che queste debbano comunque confrontarsi con il mondo vegetale, a ribadire un’incessante rinnovamento della propria condizione. Non è ammonimento religioso, non è risurrezione, non è esortazione ad allontanarsi dai piaceri vacui della vita. Della Storia viene preservata la meditazione sul Tempo, sulla caducità della materia, in un atteggiamento laico, di lenta osservazione. Non credo sia un caso che gli unici elementi che Montessori e Benetti mantengono costanti, siano presenze di vita, caratterizzate da un ciclo biologico: nascita e morte. Non ci sono manufatti ad indicare il trascorrere del tempo, ma qualcosa di organico che sulla propria pelle testimonia un passaggio: il conseguente avvicinamento ad un termine, ad una fine. Probabilmente, epurato dal pesante macigno dogmatico, il tema della vanitas si esprime in una lucida consapevolezza d’intenti. Quello che viene mostrato sulle tele o sulle carte di Montessori o nelle immagini fotografiche di Benetti sono presenze che hanno terminato il loro ciclo terreno. Fiori spezzati che possono sbocciare anche dopo la morte, e avvizzire in poche ore lasciando solo qualche fragilissima traccia. Quindi un sentimento della bellezza che oltrepassa il fine ultimo della vita, un canone estetico che gioca con il tempo, creando un’ambiguità di fondo. Elisabetta Rasy nel breve saggio Figure della malinconia a proposito del genere della vanitas scrive: è caducità e morte, vale a dire qualcosa che dall’ordine della materia passa all’ordine dello spirito. L’opera non è soltanto un oggetto di ammirazione, è anche un oggetto di meditazione. Ed è proprio questo passaggio all’ordine dello spirito che Montessori e Benetti mantengono dalla tradizione. Passaggio che Elisa Montessori testimonia anche attraverso il supporto stesso di carte o tele strappate. Carte su cui interviene con l’uso dell’acquerello, in modo da restituire una profondità liquida al disegno, quell’idea di logoramento dell’oggetto rappresentato. Ma anche quando opera su tela, il supporto mostra la sua instabilità: una composizione più ampia che viene ritagliata, spezzata, in forme irregolari, come fossero affioramenti di memoria. Presenze vegetali che emergono dalla tela, ma non nella loro pienezza, non in un armonico rapporto con il tutto. Questo non è più possibile; si è ormai oltrepassato l’ordine della materia, approdando all’ordine dello spirito. Quindi rimane il ricordo, la contemplazione, e il segno dell’uomo su una tela, a sua volta temporaneo. Nella fotografia di Raffaella Benetti il passaggio tra l’ordine della materia e l’ordine dello spirito è parte integrante della poetica stessa. Un fondo nero, un nulla su cui si depositano residui di vita: melograni, peonie, fragole, rose. Un colore radicale che azzera qualsiasi tipo di prospettiva, un evidente segnale di chiusura rispetto ad un tempo futuro. Ma rimane qualcosa che nell’opera di Montessori è già scomparsa, quella bellezza canonizzata, una fioritura che lentamente si disfà restituendo scheletri di vita. Alcune fotografie lasciano intravvedere foglie al limite della scomparsa, quasi un rimando diretto al teschio Seicentesco, all’ammonimento perentorio e autoritario. In questo caso la testimonianza non è sacra, ma biologica: un passaggio temporale letto nella sua complessità estetica, nella sua fragilità, anche, emotiva. Determinante anche l’insistenza sul simbolo del melograno, volontaria citazione letteraria, il poema in versi alessandrini di Stéphane Mallarmé: Pomeriggio di un Fauno. È la traccia di una stratificazione linguistica: la parola che si traduce in immagine ma soprattutto in colore, ancora una volta, a ribadirne l’eco, la provenienza, la direzione intellettuale. Direzione duttile perché caratterizzata da un’ampia bibliografia che non può dimenticare il barocco, come nel grande mosaico che vede la ripetizione di tre sole immagini a creare un vortice simmetrico. Della cultura barocca conserva il trionfo estetico della forma, una superficie che nasconde il reale tema della composizione, reso palese dal titolo Rondò, omaggio alla composizione in A minore per piano, k.511 di Mozart. Nuovamente un enigma che ritorna, una doppia lettura, una difficoltà d’accesso che confonde la carte. Anche in questo caso il colore nero descrive un passaggio, segnalando un cambiamento della natura stessa. La spirale di fiori recisi sembra disegnare un ballo elegante, equilibrato. Un innocuo divertimento compositivo. Ma è solo apparenza, come lo è spesso il gioco barocco, a nascondere una seducente danza macabra. Fiori che hanno perso il contatto con la loro fonte di vita, petali che dissimulano la loro morte. Rimane la bellezza come categoria al di là del tempo, come inganno. Solo due colori: il bianco e il nero. È l’estremizzazione di un dualismo che nella sintesi cromatica evidenzia quell’ambiguo passaggio dell’essere, reso tale dalla trappola della bellezza stessa. In entrambi i percorsi, fotografico e pittorico, è palese un’attenzione alla storia dell’immagine, ad un sentimento del tempo e alle relative conseguenze narrative. Una riflessione che diventa contemporanea nel suo essere sintetica, ossia nel ripulire il topos da sovrastrutture ideologiche rendendolo essenziale. Elisa Montessori e Raffaella Benetti scelgono un solo oggetto, una sola costante presenza che possa testimoniare un passaggio temporale e le relative conseguenze fisiche e metafisiche. È un lavoro di labor limae, di cancellazione. La struttura narrativa dell’opera non si basa sulla contrapposizione semantica degli elementi presenti sulla scena, come nelle tele dell’esperienza seicentesca. È il Tempo stesso a evidenziarsi, a diventare attore, recitando un proprio monologo. Non ci sono ruoli secondari o controfigure, ma un unico lento e seducente disfacimento.

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