RAFFAELLA BENETTI scultura, 2014, testo di Marco Bussagli – pp 10-22/36

Il crocifisso di Corigliano Scalo storia di una committenza.

L’incarico per il Crocifisso monumentale della chiesa parrocchiale dei Santi Leone e Nicola a Corigliano Scalo, fu conferito a Raffaella Benetti da don Nando Ciliberti, Direttore dell’Ufficio dei Beni Culturali Ecclesiastici che dipende, a sua volta, dall’Ufficio per la Nuova Edilizia di Culto dell’Arcidiocesi di Rossano-Cariati, in provincia di Cosenza. L’incontro con Raffaella Benetti avvenne nel corso dei lavori del convegno internazionale «Crossing Worlds. La Croce e il mondo», tenutosi a Venezia nell’ottobre del 2009. In quell’occasione fu affrontato il tema della Croce in termini teologici e filosofici, con un autorevole intervento del filosofo, allora Sindaco di Venezia, Massimo Cacciari. Lo studioso esaminò il tema dal punto di vista storicistico intitolando il proprio intervento «Tra segno e simbolo: la croce come riferimento nell’antropologia». La riflessione del pensatore veneziano lasciò una traccia profonda nella visione di Raffaella Benetti, per sua stessa ammissione. L’intervento del filosofo fu oggetto di costruttiva discussione fra la Benetti e don Ciliberti che si erano per caso trovati allo stesso tavolo durante il pranzo. Fu così che scoprirono con stupore di condividere lo stesso interesse per gli scritti del mistico russo Pavel Aleksanrovic Florenskij. Fu quello un momento centrale nella commissione dell’opera perché da quell’iniziale scambio d’idee nacque una felice complicità intellettuale che portò don Ciliberti a proporre a Raffaella Benetti la realizzazione del Crocifisso per la chiesa che aveva avuto l’incarico di costruire. Così, dopo quasi tre anni di progetti, di disegni, di bozzetti, di lavoro e di prove, domenica 5 agosto 2012, alle ore 19.00, nella chiesa parrocchiale dei Santi Leone e Nicola di Corigliano Scalo – non lontano dalla cittadina di Rossano Calabro celebre per il suo Vangelo purpureo che da qui prende il nome –, l’Arcivescovo di Rossano-Cariati  S. E. Mons. Santo Marcianò, celebrò una messa solenne, durante la quale ebbe luogo l’attesa benedizione del crocifisso bronzeo che si staglia sulla parete di luce, costituita dalla grande ‘vetrata’ (gli apici sono d’obbligo perché, in realtà, si tratta di lastre di vetro lavorate a mo’ d’alabastro) eseguita e messa in opera dalla ditta Eredi Mellini di Firenze. La realizzazione di queste due imprese monumentali, si deve alla sensibilità dell’Ufficio diocesano Edilizia di Culto che, così, ha potuto completare il complesso parrocchiale impreziosendo dal punto di vista artistico e simbolico l’area del presbiterio progettata come culmine del percorso di fede e di preghiera. Per correttezza e concretezza, poi, giova ricordare che l’impresa è stata finanziata dal Servizio Nazionale Edilizia di Culto, con i proventi della CEI (Conferenza Episcopale Italiana) che, in tal modo, ha impiegato parte degli introiti dell’otto per mille. Motore e stratega di tutta l’operazione è stato l’Arcivescovo Santo Marcianò grazie alla cui infaticabile azione si sono affiancate le competenze di don Nando Ciliberti, direttore dell’Ufficio diocesano preposto, di don Pasquale Madeo e del Rag. Vincenzo Curia, responsabile dell’Ufficio Amministrativo della Diocesi, impegnati  contemporaneamente a coordinare tanto i lavori conclusivi di posa in opera delle vetrate, quanto quelli del mosaico raffigurante il Cristo Risorto realizzato per la chiesa di S. Gaetano Catanoso a San Nico, in Corigliano.

Il Crocifisso di Raffaella Benetti.

Il Crocifisso di Raffaella Benetti si pone come punto di arrivo e momento di riflessione al termine del lungo percorso iconografico che dal Christus patiens di Giotto, giunge alle figure dolenti di Masaccio e Brunelleschi per passare, attraverso El Greco prima e Zurbarán poi, alle interpretazioni ottocentesche di Emile Nolde o di Munch per approdare alle intemperanze cromatiche della Crocifissione di Renato Guttuso. Del resto, che l’artista si sia preparata con grande attenzione a questa impresa, lo dimostra bene anche il testo che la Benetti ha scritto appositamente per questa occasione, ma che riflette anche il suo percorso interiore e di ricerca artistica. In genere, la critica non è avvezza a riconoscere agli artisti una dimensione paritaria sul piano della ricognizione teorica, ma in realtà, ogni pittore e ogni scultore, degni di questo nome, necessariamente, ‘devono’ essere dei grandi storici dell’arte. La riprova sta in questo testo – che, volutamente, ho letto dopo aver scritto queste pagine – e che vale la pena di riportare per intero: Croce come afferma Julien Ries è il simbolo primordiale che rivela una realtà, una modalità del reale, una struttura del mondo e la sua polivalenza permette di esprimere significati diversi; attraverso il simbolo si delinea perciò una prospettiva in cui elementi eterogenei possono articolarsi in un unico insieme.
Per i cristiani, la croce è il Segno che evoca un evento storico fondamentale nella storia della salvezza: la crocifissione e la morte di Gesù sul Calvario. Il Crocifisso porta così in sé il mistero della vera icona, la natura umana e divina del vero uomo e vero Dio. E’ il segno universale che indica la immissione reciproca delle diverse dimensioni dell’essere e come ha affermato Massimo Cacciari: “la Croce sta mentre tutto intorno si volge a questo segno… nella Croce trascendenza ed immanenza sono in armonia… Croce come segno perfetto della relazione.” Affrontare come artista il tema della Croce pone davanti ad una molteplicità di domande tra le quali come rappresentare la forza di questo segno armonico, la forma dell’astratto puro, l’uomo, il momento estremo dell’abbandono e la massima intimità nel momento dell’abbandono.
Ritengo importante cercare di capire come l’immagine significhi il tempo presente, quale linguaggio sia possibile adottare perché un messaggio possa comunicare al mondo d’oggi, quali forme possano essere create perché esprimano una ricerca di senso dell’uomo. La riflessione di Romano Guardini conserva ancora oggi la sua attualità: “non si tratta infatti di rappresentare ma di far rivivere una esperienza di fede al credente”. La preoccupazione della rappresentazione dovrà allora aprirsi al desiderio di incarnare un senso, di farsi coesione tra l’immagine e la dimensione di fede dell’uomo, andare verso le origini del senso. In dialogo con la committenza, lo studio per la realizzazione del progetto del Crocifisso della chiesa dei Santi Nicola e Leone di Corigliano si è basato su una attenta osservazione di elementi quali forma, spazio architettonico, luce e colori cercando di creare una relazione armonica “arte-spazio liturgico-luce”, nel pieno rispetto della centralità dell’altare. La zona absidale del presbiterio è stata concepita come volume di luce e la croce di bronzo, sospesa a mezz’aria è posta al centro di esso. L’immagine plastica del Cristo in Croce ha trovato ispirazione in Giovanni (XIX, 25-30) e nei lavori della pittura dei maestri spagnoli Francisco de Zurbarán e Diego Velázquez .

Canaro, 31 gennaio 2011

Raffaella Benetti

Il testo, letto dall’artista, il giorno della benedizione della chiesa (5 agosto 2012), è una chiara dichiarazione d’intenti e testimonia della riflessione profonda con la quale Raffaella si è posta dinanzi ad un tema così alto, importante ed impegnativo. Tuttavia, a differenza degli storici dell’arte, gli artisti posseggono anche un altro approccio nei confronti del problema della figura e dell’arte, ovvero quello del linguaggio privilegiato della pittura e del disegno, passaggio obbligato tanto che si voglia dipingere, quanto che si pensi di scolpire o costruire. Non è allora un caso che Raffaella, prima di passare all’esecuzione della statua bronzea, abbia realizzato vari studi e disegni che avevano lo scopo di tradurre in immagine le riflessioni che abbiamo potuto leggere nel testo scritto dalla scultrice. Così, i disegni a carboncino ed a grafite sono personali elaborazioni da modelli storici che vanno da quello di Donatello e di Velázquez (studio 5) a quello di Benvenuto Cellini (studio 6) fino a quello di Zurbarán (studio 2). Attenzione, però, non bisogna pensare a dei d’après oppure a delle copie. I riferimenti sono degli spunti che rimandano a certe iconografie che s’intersecano fra loro ed alludono, per esempio, anche ad opere o filoni iconografici che si possono scorgere sotto la trama della matita, come l’ombra di Grünewald che si proietta su tutta la produzione dei bozzetti in termini di tormento delle forme, fuso poi con lo spessore materico e granuloso della matita, vicino alle esperienze di Previati che, pure, non sono esplicitamente citate. Su tutti, però, c’è una scelta precisa alla quale, non per caso, Raffaella Benetti dedica ben due bozzetti (studio 1 e studio 4) e che non è difficile individuare nel Cristo di San Giovanni della Croce dipinto dal 1951 da Salvador Dalì. Naturalmente, anche in questo caso, non si tratta di una copia come dimostra la scelta stilistica della Benetti, volutamente distante dal nitore metallico del maestro catalano, ma di un’intelligente riappropriazione del tratto principale di quell’immagine, ossia la vista dal basso che Raffaella Benetti è riuscita con grande efficacia a fissare nel bronzo. Quel che attrae la scultrice italiana è la naturale allusione al concetto di offerta che quella posa ha insita in sé. Cristo, così, si dona agli uomini per lavare – con il proprio sangue – i peccati del mondo. Pure la scelta della croce segmentata che poi darà ispirazione alla grande impresa della vetrata, di cui si parlerà più avanti, dipende, almeno in parte, dalla cubica croce del quadro di Dalì (42). Sarà questo un processo non lineare, però, come dimostra, ad esempio, uno studio in cera che va verso una soluzione iconografica diversa, nella quale la testa del Cristo è reclinata in avanti come i modelli ispirati a Velázquez e Zurbarán. Il processo di progettazione per una scultura, infatti, è molto più laborioso di quello relativo ad un dipinto, nel senso che non bastano solo i disegni, ma bisogna prevedere anche bozzetti tridimensionali, in cera in questo caso, che permettono di considerare, dal vero, gli aspetti volumetrici, calandoli nello spazio. Poi viene, il grosso del lavoro, ossia la realizzazione del modello in creta – a grandezza naturale – che prelude alla fusione in bronzo a cera persa. Adesso l’autrice sa esattamente cosa vuole fare e qual è il percorso da seguire. Il Cristo definitivo ha assunto un aspetto apollineo, nel quale la resa anatomica ha conquistato un ruolo primario. La scultrice dimostra una profonda conoscitrice della miologia del corpo umano, giacché restituisce correttamente e con precisione volumi e plastica anche dei muscoli meno noti ed evidenti, come il coraco-brachiale che definisce il volume del cavo ascellare, nella posizione intermedia fra il bicipite ed il tricipite il quale, non per nulla, è detto “muscolo dei crocifissi”. Del resto, anche gli arti inferiori sono stati resi con estrema cura e, in particolare, le cosce, tese nello sforzo di sostenere il peso del corpo, come appare dalla contrazione della rotula, giustamente posizionata verso l’alto. Infatti, per reggersi ed impedire al corpo di cadere in basso, accelerando la difficoltà respiratoria che determinava la morte per asfissia, chi era crocifisso faceva forza sulle gambe ed estendeva la gamba sulla coscia al solo scopo di sollevare il tronco e ricavare un po’ di sollievo (se così si può dire), per quanto possibile in quella terribile posizione. Perciò, Raffaella Benetti enfatizza la presenza dell’arcata epigastrica la cui eminenza plastica rivela la difficoltà di respirare. Anche l’addome è teso e l’uomo che sta sulla croce è agonizzante (43). Non solo, ma l’attenzione della scultrice alla dimensione anatomica del suo Crocifisso si spinge fino alla scelta della tipologia di piede che, coerentemente con il tipo fisico di Cristo, non è greco, ma egizio, vale a dire, mediorientale. Bisogna, infatti, sapere che il piede cosiddetto “greco”, si caratterizza per il secondo dito che è più lungo dell’alluce. Quello “egizio”, invece, lo ha più breve di quello. Naturalmente, l’autrice privilegia questa soluzione. Proprio per questo, il Crocifisso della Benetti, nonostante la bellezza solare del suo aspetto non sconfina affatto nella leziosità, come sarebbe potuto accadere e come, per esempio, dimostra il chiaro confronto con il settecentesco crocifisso ligneo del duomo di Cosenza la cui inappuntabile anatomia, sfregiata dalla presenza di piaghe e tumefazioni, diviene, tuttavia, inevitabilmente leziosa per via dell’impiego di una vernice lucida che rende l’opera inutilmente caramellosa. Il Crocifisso di Raffaella Benetti, invece, è sobrio, austero e dolce nello stesso tempo. Il volto, con gli occhi socchiusi e la bocca leggermente dischiusa, ha il naso affilato e, nella torsione della testa, ricorda il Cristo della Minerva di Michelangelo che, ricordiamolo, è il Risorto. Certo, qui, le palpebre sono scese, ma non serrate, come se stesse per risvegliarsi da un lungo sonno, come se sapesse già (e certo così doveva essere) che, dopo tre giorni passati nel sepolcro, sarebbe uscito con il corpo di gloria; quel corpo splendente che Santa Maria Maddalena non poté toccare (noli me tangere), ma nel quale Tommaso ebbe il raro privilegio d’infilare il suo indice (Giovanni XX,19-31). A questa perfezione, di sicuro, allude la giovane età del Cristo della Benetti che pare non avere neanche trent’anni, nonostante la barba che adorna il mento. A proposito di barba, poi, vale la pena di sottolineare come la stilizzazione proposta dall’autrice, ben lungi dall’essere meramente descrittiva, ritorni su quelle scelte stilistiche, già abbracciate nei disegni, in cui l’aspetto materico diveniva preponderante. Così la barba è resa “per via di levare”, incidendo la creta, piuttosto che aggiungendo materia; l’autrice, così, rende la superficie ruvida, tormentata, bucherellata, a contrastare la pelle liscia e la semplice coerenza dei volumi. Anche i capelli sono a ciocche ineguali, resi con una materia che si aggruma, si solidifica dopo la colatura, come fosse la cera di una candela che si consuma. L’attenzione di Raffaella Benetti alla dimensione materica della sua scultura, si riverbera, però, anche sulla resa della pelle del corpo del Crocifisso che non è levigata e idealizzata, ma sembra aver subito tutti gli insulti della vita, sicché se si osserva da vicino il modello in creta, appaiono tutte quelle asperità del corpo che qui si è già fatto narrazione e arte. Sarà poi la superficie lucida del bronzo a trasfigurare del tutto l’immagine e a sublimarle nella scelta stilistica. Del resto, il bronzo è materia viva e la sua lavorazione tradisce, volutamente in questo caso, il travagliato percorso di nascita che lo porta a prender forma grazie al fuoco della fornace. Allora quelle piccole asperità che la creta presentava, ben lungi dal doversi considerare semplici imperfezioni, sono da leggere come quelle tracce che segnano il passaggio dal piano delle idee a quello del mondo, degli uomini e delle cose. Non si pensi, però, ad una riflessione a latere, perché la figura di Cristo è proprio l’icona di questo transito dallo spirituale al materiale segnato dal braccio verticale della Croce, mentre quello orizzontale coincide con il confine fra cielo e terra. Non è un caso, infatti, che la posizione teologica del mondo cristiano si sia confrontata per secoli con il tema della rappresentazione di quel che non è rappresentabile: Dio. Non fu un percorso né facile né indolore quello che condusse all’impiego delle immagini come la base della religiosità raffigurata. Com’è noto, accanto alla posizione di San Gregorio Magno che considerava le pitture come la Bibbia dei poveri perché il racconto divino fosse chiaro anche a chi non sapeva leggere, c’era quella più complessa della Chiesa d’Oriente che nella santa icona individuava il mezzo privilegiato di meditazione e di preghiera per comunicare con Dio. A contrasto, invece, si era sviluppata l’opinione di coloro che vedevano nell’uso delle immagini per la liturgia e in questa credenza religiosa, il rischio di ricadere nell’idolatria, oltre allo svilimento di un pensiero che, rivolgendosi all’Altissimo, doveva essere scevro da riferimenti al mondo materiale, alle cose, agli oggetti. Solo la croce e i simboli del cristianesimo potevano essere ammessi, mentre le immagini, incluso il crocifisso, dovevano essere distrutte perché veicoli di menzogna. Questo contrasto durò più di duecento anni prima che l’iconoclastia venisse del tutto accantonata e le immagini tornassero ad essere il fondamento della religiosità cristiana. Ci volle addirittura un Concilio, il Niceno II (il primo fu quello di Costantino), indetto dall’imperatrice Irene per scardinare questa aberrazione. Allora, nella città di Nicea, in quel lontano 787, si posero le basi della dottrina teologica sulle immagini e si chiarì, una volta per tutte, che erano il fulcro del percorso di redenzione e di fede. Gli argomenti portati dai teologi furono molti, ma uno fu quello centrale: Cristo (e il Crocifisso) era l’immagine di Dio. Se, infatti, l’Eterno aveva voluto inviare sulla terra il Figlio come “immagine” di sé per esser più vicino agli uomini che di “vedere” hanno bisogno, allora, ogni immagine sarebbe stata lecita e quella del Crocifisso ne avrebbe rappresentato l’eccellenza (44). Alla luce di queste considerazioni, pare del tutto evidente che, nel Crocifisso di Raffaella Benetti, le rugosità e le imperfezioni del corpo di Cristo, rese sfavillanti dal bronzo, possono interpretarsi come la traccia di quel percorso che ha condotto l’Eterno nell’utero della Storia per nascere al mondo con il nome di Gesù, vero uomo e vero Dio, come dice il Credo, appunto.

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