LA DOMANDA DEL PENSATORE, 2012, a cura di SERGIO GARBATO

Lo scultore non lavora su ciò che si vede, ma su ciò che deve accadere. Picasso

Quando il lavoro è giunto al termine, nel senso che è compiuto, o, all’opposto, è destinato a restare incompiuto, comincia per l’opera una nuova storia, non soltanto perché allontanandosi dall’artista che le ha dato vita si affida ad altri sguardi e altre emozioni, ma proprio perché torna ad essere il punto di partenza per un diverso percorso creativo. L’opera, si sa, concorre all’autobiografia dell’artista: condensa e contiene in sé un certo momento dell’esistenza e determina sovente quelli successivi. Ma, per altri versi, l’opera si prolunga nel dialogo che l’artista stabilisce con il soggetto. È, presumibilmente, in questa prospettiva che si deve intendere l’impegno artistico di Raffaella Benetti, perché, non appena le motivazioni e i pensieri e il rincorrersi di significati che concorrono a definire l’opera trovano una sintesi nella forma e anche una sorta di soluzione liberatoria, tornano a fuggire altrove. Il lavoro è giunto al termine e niente si può più dire, ma è come se il soggetto sopravvivesse all’opera, dilazionando tensioni e lusinghe. Il ritorno sullo stesso soggetto, allora, diventa quasi destino, ma l’incontro deve avvenire in modo diverso, per saggiare nuove occasioni. In Raffaella Benetti, la scultura è, dunque, fortemente condizionata da un rapporto emotivo e profondo con il soggetto, da un colloquio quasi ininterrotto, ma paradossalmente scandito da necessari distacchi. Forse perché, come suggeriscono certi versi rivelatori di Paul Celan, «qualunque pietra tu alzi – / discopri, coloro cui occorre / il riparo delle pietre: / denudati, / rinnovano il loro intreccio». Se l’incontro primo con il soggetto è frutto di un’occasione su cui influiscono la biografia dell’artista ma anche molteplici suggestioni culturali, la scelta del materiale è determinata, come si diceva, da continui ritorni e da rinnovati modi di approccio. La maggior parte delle opere, pertanto, conosce diversi stati: terracotta, bronzo, pietra o marmo di Carrara. In questa direzione va intesa anche la coesistenza, nella stessa opera, di materiali diversi: legno e terracotta, pietra di Lecce e marmo nero del Belgio. È come se le forme rivelassero una loro precarietà e aleatorietà, che solo la forza del materiale può far consistere. «Le forme non sono mai innocenti, ma dettate da pulsioni inconsce», ha scritto Herbert Read e nella progressiva variazione del materiale Raffaella Benetti riesce a sondarne fino in fondo la vitalità. C’è la «Crocifissione», ridotta sapientemente al solo volto di Cristo immerso in un sonno segreto. Ma la forma, che traduce quel volto e quel sonno, ha bisogno di fissarsi, di trovare se stessa e le motivazioni della sua persistenza nella materia. Dapprima la terracotta, in funzione di bozzetto, certo, ma anche capace di esaurire la tensione dell’artista. Poi, quei lineamenti calati nel sonno, nella rugosità e nel colore rugginoso del bronzo, diventano l’addensarsi degli sguardi e l’indizio di un dialogo che non si è spento, perché molte cose non sono state dette e non si sapranno mai. Infine, il marmo di Carrara: il volto addormentato di Cristo è sempre lo stesso, con quell’inclinazione che lo fa iscrivere in un triangolo, ma i lineamenti assumono una sorta di essenzialità, sensibilissima al gioco di luci ed ombre che scivola sulla lucida superficie. Il mistero di quel sonno diventa eternità. C’è «Lulù», che cerca di penetrare i segreti di due forme diverse, ma complementari indotte a coesistere: l’animale con la coda ripiegata verso l’alta suggerisce uno stato precedente oppure successivo della sfera sulla quale appoggia, come se la perfezione di quest’ultima fosse messa a confronto con la mobilità dell’altro, nella dialettica brancusiana di figura e piedistallo. Ma la soluzione si evidenzia nei due materiali impiegati: la morbidezza che disegna l’animale trova la sua espressione nella pietra di Lecce, lavorata in modo tale che lo sguardo che si posa sulle rugosità non inquieta minimamente la sinuosità della forma e il riscontro offerto dalla superficie scura e liscia della sfera che diventa specchio di ciò che non potrà mutare mai. Se, nelle due opere citate, si avverte (nell’impostazione, si badi, non nella soluzione) un particolare recupero dell’eredità neoclassica, soprattutto nell’attitudine a un contenimento delle emozioni, nelle terrecotte, che sono cronologicamente precedenti, si rileva una più scoperta tensione, avvalorata anche dal ricorso al colore, sia pure con una certa parsimonia. La malleabilità del materiale si presta, dunque, a forme contratte e mobili, al protendersi dei corpi e dei volti femminili, anche se i lineamenti appaiono assorti e mantengono una sorta di lontananza. «L’attesa» e «Bagnante» sono, in fondo, le due facce di una stessa medaglia: un corpo che si decanta nel modellato, con figure in piedi o distese, che hanno solo un rapporto incidentale con il supporto. È, infatti, solamente il corpo che parla, che rimanda a storie e situazioni che lo sguardo dell’osservatore può agevolmente immaginare o ricostruire. La quotidianità dell’esistenza appare nella disposizione quasi naturale di quei corpi, che sottendono la ripetizione delle forme e dei giorni. «Danzatrice», che pure rimanda abbastanza direttamente a certi esempi di Edgar Degas e Aristide Maillol, acquista una sua originale presenza nell’attenzione posta alla fisionomia piuttosto che al corpo, di cui si rileva soprattutto il ripiegamento. Anche qui, il volto offre lineamenti concentrati in una dimensione intima e distaccata da ciò che sta intorno. Ma quel corpo e quel volto con gli occhi socchiusi e labbra rosse e appena carnali sono consapevoli della lontana stagione della scultura etrusca e di quella perduta della pittura cretese. Quanto al corpo, c’è anche l’inserimento del legno, un piedistallo che finisce per essere vincolante instaurando un dialogo con la stessa scultura. Infine, nel «Pensatore», non soltanto l’interesse per il corpo femminile lascia posto ad una figura maschile, ma il dialogo tra supporto e scultura diventa totalizzante, tanto da dare senso perfino al titolo. Il supporto il legno naturale è un grande punto interrogativo che gravita, ovviamente, su una sfera che ha per conto suo un significato ulteriore. Piccola, rispetto all’interrogazione lignea, la scultura in terracotta, come se contasse più il pensiero del pensatore. Un pensatore che sa formulare solamente una domanda, che va oltre il suo corpo ed è destinata, forse, a restare senza risposta.

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