CONOSCENZA DELLA NOTTE , 2016, a cura di Sergio Garbato

Dove l’ombra procede e le strade ristanno tra i fiori, ricordarmi le parole e le grida dell’uomo è forse un inganno. Mario Luzi

“Io sono uno che ha conosciuto la notte”, ha scritto il poeta americano Robert Frost. E, forse, intendeva dire che, nella notte, la ragione smarrisce i suoi troppo dilazionati riferimenti e scopre una forma diversa di conoscenza, quella di chi si ritrova, senza mediazione alcuna, a tu per tu con se stesso. è la vertigine di un linguaggio oscuro che ancora balbetta gli opposti e antichi moventi dell’anima lacerata. Notte come ricerca interiore, oppure notte come rovesciamento della luce della ragione e dei sensi. Di giorno, il segreto potrebbe essere violato e l’oscuro rivelato. Ma la passione per la notte si accende nella luce diurna. La notte è assenza di colore e luce, dove non ci si perde, ma si perde. E lo sguardo è prigioniero, costretto a ripetersi, fatale e inalterato, quasi una lama della luce del giorno, che irrompe improvvisa, taglia e disperde il grigio uniforme della penombra, per creare chiaroscuri e tenebre, così che si cancellano, come un sogno all’alba, le immagini della notte. All’esperienza della notte si può accedere, dunque, solamente perdendosi e diventando altro. “È fin troppo facile e pericoloso, ha scritto Maurice Blanchot, stabilire i percorsi che ambiguamente ci accompagnano dal giorno alla notte: la notte dell’inconscio, la notte dei miti. Là, dove le tenebre insidiose inducono alla tentazione della perdita e del nulla, ma anche del riconoscimento e dell’ identità”. La ricerca, allora, è soltanto conoscenza della notte, della sua inviolabilità. Il rovello della conoscenza, appunto, che la ragione non può più dare. Nella notte la ragione perde i suoi riferimenti e riscopre una forma diversa di conoscenza, quella che emerge dalla dissoluzione. E l’occhio rischia di indovinare, piuttosto che vedere foschi colori e nere luci, forme e grovigli di ombre. Ma c’è un fiore segreto che sboccia nei fervori della notte. Un fiore che possiede magiche virtù: conferisce il dono dell’invisibilità, svela i tesori nascosti ed è talismano contro gli incantesimi malevoli e gli spiriti demoniaci. Difficilissimo è coglierlo, perché proprio quando, a mezzanotte, apre i suoi petali misteriosi e irradia luce intorno, l’oscurità lo afferra e lo allontana di colpo. E fremono tutte quelle erbe medicinali, sfuggite alla razzia notturna delle streghe: menta, malva, timo, sambuco, tiglio, ruta, verbena, valeriana, artemisia e camomilla, in un oscuro gioco di fermenti e metamorfosi. Ma, in qualche recesso segreto, affiorando dalla tenebra assoluta, vegliano altri fiori che dispongono in varia forma i petali scarlatti e rosati per dare lusinga agli occhi della notte, che riconoscono espressioni umane, sguardi crudeli e sorrisi malevoli, simulando il volto osceno di Thanatos, quasi si trattasse degli ultimi bagliori di barocche “vanità”, destinate a una illusoria dissoluzione. Vanità di un mondo che non c’è più, perduto nel fondo più tenebroso della storia e della memoria. Solo quei fiori che trapelano fatui e superbi dall’oscurità silenziosa e che, per un attimo, si esibiscono e simulano un’opulenza orgogliosa, dando appuntamento a melagrane spaccate che rilucono nei riflessi rossastri e lucidi dei chicchi trasparenti “dal sapore mielato”. È, ancora, un richiamo a un mondo “altro” e perduto, reviviscenza di antichi dei e riti pagani, che rinnovano il mito del sangue di Dioniso e quello di Persefone regina degli inferi, congiungendo morte e rigenerazione, salvezza e fecondità. Così, come recita il Cantico dei Cantici, “i tuoi germogli sono un giardino di melagrane, con i frutti più squisiti”, in un ritorno al barocco, nelle intrecciate allegorie scolpite nella pietra leccese, o nei piccoli frutti in terracotta che adornavano le sepolture. E altri fiori e frutti appaiono e si alternano sul fondo della notte, mescolando i bianchi petali che ondeggiano lievi e sfumano nel buio, per poi disperdersi o accartocciarsi come inquiete e misteriose farfalle, e foglie ridotte all’essenzialità, sottili cartilagini vegetali, che, negli orditi impalpabili, sembrano quasi una patetica ed esile griglia e le piccole more rosse e brune, che pendono da gracili steli in omaggio a un grande poeta. Sono un retaggio, che ancora permane e che si dissolve con il canto del gallo. Tutto allora torna alla quiete e alla normalità, come in quella splendida commedia che, in ossequio a certe tradizioni nordiche che volevano che il visibile e l’invisibile si mescolassero, Shakespeare aveva dedicato alla notte di mezza estate, con fermenti e metamorfosi che tutto rendono lecito fra uomini e dei e animali e piante, fino a quando l’alba disperde le immagini e le relega nel regno del sogno per ricomporre la notte… Soltanto il sonno, con il suo fardello di immagini sconnesse e inquietanti, che si cancellano al mattino, saprà porre rimedio al nostro turbamento, sempre che non ci siano rimasti, impressi sulla carne, i sospetti di un’altra identità. Tutte queste forme e queste immagini sono il risultato maturo di una recente ricerca espressiva di Raffaella Benetti. L’artista è riuscita ad alleare l’imprevisto con la coincidenza, frugando con l’obiettivo di una piccola macchina fotografica nel buio della notte e lasciando che gli scatti, appena percettibili, memorizzassero il suo sguardo, restituendone lo stupore e i sentimenti profondi davanti alla scoperta di un mondo impensabile, fatto di fiori e frutti misteriosi e carichi del senso stesso della “vanitas” barocca. Solo che, all’artificiale e ingannevole opulenza di modi pittorici che aduggiano alla natura morta nell’intento di ricordare la caducità di ogni cosa e dell’uomo in particolare, le “vanitates” di Raffaella Benetti sono autentiche, specchio della natura e dei suoi misteri che si riflettono nello sguardo di un’artista.

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