VANITAS, testo di Christina Magnanelli Weitensfelder in Aimagazine the art review, fall 2016, N° 74, pp 76-77

Quella di Elisa Montessori e Raffaella Benetti è la storia di un incontro intellettuale, di ricerche simili che si studiano a distanze ravvicinate. Elisa Montessori ha alle spalle un percorso storicizzato che insiste su alcuni temi ricorrenti, declinati in diversi linguaggi e supporti. La carta e l’acquerello, la tela e il colore, rotoli trasparenti di veline delicate, libri che subiscono trasformazioni di stato, pagine bianche che diventano utili supporti per collage. Raffaella Benetti, più giovane anagraficamente, inizia la sua attività riflettendo sulla scultura, sull’istallazione, per poi dirottare il suo interesse sul linguaggio fotografico. Ed è proprio in quel momento che si stabilisce quella forza d’attrazione tra i progetti di Benetti e Montessori. Un’attrattiva da cui scaturisce una collaborazione, che vede la propria sintesi in un topos della storia dell’immagine: la vanitas. Progetti che si influenzano vicendevolmente, ma che mantengono la propria autonomia soprattutto nella diversità della materia esposta. Del tema della vanitas, degli emblemi che caratterizzano il genere, mantengono il fiore reciso: un corpo che ancora conserva i tratti della vita, in un momento ad di là della sopravvivenza. Entrambe raccontano la storia di una trasformazione, di una decomposizione che, in alcuni passaggi, conserva ancora eleganza, compostezza, quell’equilibrio necessario alla bellezza. Montessori interviene su carte porose con l’uso di acquerelli: un colore liquido che intercetta quel momento di passaggio dall’essere al non essere. O ancora con colori ad olio su tele strappate, come fossero residui di un racconto più ampio. Benetti invece simula un’emersione da un monocromo nero, da una profondità di cui non ci è consentito di sapere nulla. L’oggetto emerge come se avesse ancora capacità vitali pur essendo reciso, pur essendosi allontanato, apparentemente, dalla vita. Due percorsi che guardano direttamente alla storia dell’immagine, ma non solo. Il punto di partenza è la vanitas seicentesca, la vanitas barocca, ricca di elementi che alludono alla caducità della vita. Quasi un ammonimento alla transitorietà dei piaceri terreni. Un topos, che nel corso del XVII secolo ha cambiato forma, rimodulando la propria fisionomia in relazione ai diversi committenti e alle diverse tradizioni geografiche. L’immancabile teschio che in alcuni episodi tardi, si veda ad esempio Lo scrigno di Georg Heinz, si trasforma in oggetto decorativo, uno delle tante curiosità rare ad arricchire una già ampia collezione. Un tema, quello della vanitas, che nella prospettiva contemporanea di Montessori e Benetti, subisce una sintesi radicale. Degli oggetti che caratterizzano le tele barocche viene salvato solo il fiore: un gambo spezzato, testimone di un tempo breve. La complessità di una storia sintetizzato nella decadenza fisica di un bulbo, di un petalo. Nella bellezza che ancora conserva. Nella drammaticità di un prossimo disfacimento. Ma le sovrapposizioni culturali non si riducono alla storia dell’immagine, si allargano alla letteratura, alla musica. Da Stéphane Mallarmé con il poema Pomeriggio di un Fauno, alle sollecitazioni mozartiane, che in alcuni casi offrono il titolo ad alcune opere. Una cultura ampia, una variazione di un tema, di un topos. Un labor limae che non vuole ridurre la complessità di un’esperienza, ma proporne tracce necessarie, ripulite da inutili orpelli. La sintesi diventa funzionale al contenuto stesso. È come se l’accumulo barocco avesse oggi bisogno di una nuova forma ermetica, dove la declinazione di un solo elemento sostiene l’intero racconto. In alcuni casi il fiore racchiude altri oggetti tipici della tradizione seicentesca. La filigrana trasparente di una foglia ormai scheletrica, o la liquidità di petali che ne rivelano la mortale trasparenza, possono alludere direttamente al teschio seicentesco, all’ammonimento per eccellenza. Ma di quella tradizione si abbandona la sottomissione dogmatica, il ricatto religioso. La vanitas per Montessori e Benetti non è più emblema religioso, si affranca da tale tradizione. Diventa una riflessione universale, con cui è inevitabile misurarsi: un passaggio, una trasformazione, il cambiamento del corpo, del nostro corpo. Ma in tutto questo rimane lo spazio per l’ironia, per una leggerezza che nella fotografia di Benetti si risolve in una danza, quasi una danza macabra, di fantasmi seducenti. Montessori, invece, propone accostamenti inaspettati, il viso di un giovane fanciullo e un rapanello rosso. Una combinazione ambigua, dove si evidenzia un mutamento di materia, una continuità quasi grottesca. Pur nell’eliminazione di alcuni oggetti della tradizione barocca, la presenza di un solo elemento sottende una tradizione complessa e multiforme. Due percorsi, come abbiamo chiarito, autonomi nella loro corrispondenza. Ma l’autonomia non è un valore assoluto, perché in arte è qualcosa di sporco, che vuole e deve essere contaminato. È lo stretto legame con la Storia a sostenere il lavoro di Montessori e Benetti, la conoscenza delle immagini che le hanno precedute, di un percorso che non è evolutivo, ma che si muove a scatti, si guarda alle spalle, per proporre nuove sollecitazioni. Perché il tema della vanitas corrisponde alla storia dell’uomo, alle domande a cui, prima o poi, cerchiamo di dare una, seppur debole, risposta.

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